Test sierologici per la diagnosi di infezione da SARS-CoV2, discussione ancora aperta

La review è finalizzata a valutare l'accuratezza diagnostica dei test anticorpali nella diagnosi di infezione corrente o pregressa da SARS-CoV-2 in ospedale o nella comunità.


10/7/2020
E’ stata recentemente pubblicata una interessante review del BMJ dal titolo Diagnostic accuracy of serological tests for covid-19: systematic review and meta-analysis, finalizzata a valutare l'accuratezza diagnostica dei test anticorpali nella diagnosi di infezione corrente o pregressa da SARS-CoV-2 in ospedale o nella comunità.

Com’è noto, l’accuratezza dei test diagnostici consente l'identificazione di persone che potrebbero aver bisogno di cure o che necessitano di isolamento per impedire la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2. La mancata rilevazione delle persone con COVID-19 quando è presente (un risultato falso negativo) può ritardare il trattamento e rischiare un'ulteriore diffusione dell’infezione. Al contrario, l’errata identificazione di COVID-19 quando non è presente (un risultato falso positivo) può portare a ulteriori inutili test, trattamento e isolamento della persona e dei suoi contatti più stretti.

Per identificare i “falsi negativi” e i “falsi positivi”, i risultati dei test anticorpali vengono confrontati con lo “standard di riferimento” per la diagnosi nei soggetti noti per avere COVID-19. Per la diagnosi di COVID-19 molti studi avevano utilizzato campioni prelevati dal naso e dalla gola, che erano sottoposti alla reazione di trascrizione inversa della polimerasi a catena ( RT-PCR). Sebbene in alcuni casi il test su tali campioni possa risultare negativo (falso negativo), ulteriori indagini (cliniche e strumentali) sono invece in grado di identificare l'infezione COVID-19 nelle persone con un risultato RT-PCR negativo.

Partendo da una prima selezione di oltre 5000 articoli contenenti le parole chiavi individuate come criteri di ricerca, gli autori hanno selezionato come ammissibili 40 articoli che comprendevano studi randomizzati, di coorte o caso-controllo contenenti il livello di sensibilità o specificità (o entrambi) dei test sierologici per covid-19.

I test utilizzati sono stati classificati in base alla metodologia:

  1. saggio immuno-assorbente legato ad un enzima (enzyme-linked immunosorbent assay - ELISAs)
  2. saggi immunoistochimici a flusso laterale (lateral flow immunoassays - LFIAs)
  3. immunodosaggi chemiluminescenti (chemiluminescent immunoassays (CLIAs)

In diversi studi, i ricercatori hanno valutato l'accuratezza di più di un metodo di prova (ad es. ELISA e LFIA) o più di un test indice specifico. Il 70% degli studi (28/40) erano stati condotti in Cina, l’8% (3/40) in Italia, l’8% negli Stati Uniti d’America (3/40) e il resto in Spagna (1/40), Svezia (1/40), Giappone (1/40), Regno Unito (1/40), e Germania (1/40). Solo il 10% degli studi (4/10) avevano inclusi pazienti ambulatoriali e solo due avevano valutato test point-of-care.

I risultati hanno mostrato che la sensibilità (che ricordiamo è la capacità di un test di individuare i soggetti realmente positivi), in base al test utilizzato, variava dal 66% registrato per LFIA al 97,8% per il CLIA. Mentre, per quanto riguarda la specificità (ovvero la capacità di un test di individuare i soggetti realmente sani), il valore variava dal 96,6% al 99,7%.

Tra le LFIA, la sensibilità dei kit commerciali era inferiore rispetto a quanto osservato nei test non commerciali. Inoltre, la sensibilità era più alta se i test erano effettuati dopo almeno tre settimane dall’insorgenza dei sintomi rispetto a quelli effettuati nella prima settimana.

Complessivamente la revisione solleva interrogativi sull'utilità di utilizzare i test sierologici come metodi per il processo decisionale medico, in particolare i tempi e gli sforzi necessari per la loro esecuzione e i carichi di lavoro impegnativi che molte cliniche stanno affrontando.

Le analisi stratificate nel tempo suggeriscono che gli attuali test sierologici per covid-19 hanno un'utilità limitata nella diagnosi di COVID-19 nelle prime settimane dall’insogenza della sintomatologia. Ad esempio, dei pazienti ricoverati e testati per COVID-19 entro una settimana dall'insorgenza dei sintomi, in media dal 44% all'87% verrà erroneamente identificato come non infetto mentre le stime di sensibilità hanno mostrato valori più elevati nella terza settimana o più tardi (con importanti tassi di falsi negativi). Ad esempio, nelle persone con covid-19 che vengono testate tre settimane dopo l'insorgenza dei sintomi, il test ELISA IgG classificherà erroneamente non infetto il 18% dei soggetti e il 30% se viene utilizzato il test LFIA IgG.

Gli autori concludono che i risultati di questa revisione dovrebbero mettere in guardia i governi che stanno contemplando l'uso di test sierologici, in particolare test point-of-care, sul rilasciare "certificati" o "passaporti" di immunità. Ad esempio, se il test LFIA fosse effettuato su una popolazione con una reale prevalenza SARS-CoV-2 del 10%, per ogni 1000 persone sottoposte a test, a 31 che non hanno mai avuto COVID-19 verrà erroneamente data l’informazione che sono immuni, mentre 34 persone che avevano COVID-19 verranno erroneamente informate che non sono mai state infettate.



A cura di:
  • Caterina Silvestri, Agenzia regionale di sanità della Toscana
  • Cristina Stasi, Centro interdipartimentale di Epatologia CRIA-MASVE, Dipartimento di Medicina sperimentale e clinica, AOU Careggi




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